sabato 7 febbraio 2015

La morte e il ritorno

La bisnonna Gelsomina  morì tre volte.  
L’ultima fu a 99 anni e un giorno.
La prima volta che le si fermò il cuore, aveva 20 anni. Era stata una corsa precipitosa e notturna nella Napoli deserta dei primi anni del vecchio secolo. Non ci era voluto molto per arrivare in ospedale, ma Gelsomina già non respirava più.
Amedeo era fuori in sala di aspetto, assorto in una disperazione tetra e silenziosa. Da pochi anni aveva sposato quella donna strana, passionale e bizzarra, che al mattino sbrigava le faccende di casa e la sera preparava decotti per le vicine che le venivano a confidare i problemi matrimoniali. Non era stato facile per lui imparare ad accettare i suoi dialoghi surreali e fuori tempo. La moglie indovinava il futuro col pendolo e  sapeva  raddrizzare le ossa dei bambini. “Legava” le armi, così che i duelli cessassero ancor prima di cominciare.  E spezzava le tempeste, potere che in un paese di mare e marinai la circondava di un’aura di ammirazione e riconoscenza, e di sospetto e diffidenza.
Sfinito, sedeva tenendosi la testa tra le gambe, e si chiedeva se avrebbe saputo rassegnarsi ad una vita di noia. Non ebbe pensieri per l’anima di Gelsomina. Proprio la sera prima, in una ardente notte d’amore, lei gli aveva confidato che la sua anima era al sicuro in altro luogo.
D’improvviso, dall’interno della stanza si sentì un tonfo ed un’esclamazione di orrore.
L’infermiera che era entrata a ritirare gli effetti personali della morta, trovò Gelsomina seduta in mezzo al letto, i lunghi capelli sciolti e la veste bianca appena appena ricamata sull’orlo. Gelsomina la guardò con un sorriso beffardo. “Vengo da lontano. Ho fame” le comunicò.
Nel quartiere si sparse la notizia della resurrezione, e come in una processione di devoti, i vicini cominciarono ad andare e tornare dalla casa di Gelsomina per osservarla col quel timore reverenziale che si tributa ad una icona religiosa. Gelsomina continuava a biascicare le sue novene muovendo le forze dei venti e dei mari e le mogli dei marinai le recavano riconoscenti sporte di pane, frutta e prodotti dell’orto.
La seconda volta Gelsomina era assorta alla finestra, quando la sua attenzione fu attirata da un lampo di luce che le attraversò l’iride. Ebbe appena il tempo di girarsi verso la sedia più vicina a lei prima di avvertire un bruciore al petto così forte da mozzarle il respiro.  Si appoggiò  con una mano allo schienale della sedia, stringendolo così forte da far sbiancare le nocche. Con l’altra mano si strinse stupita la gola, chiedendo agli dei di restituirle l’aria che le mancava.
Accorsero intorno a lei I figli che l’avevano sentita accasciarsi al suolo. Gelsomina, di nuovo, non respirava. La figlia Giovanna guardò negli occhi il padre che disse:
“Portatela nel letto”
Le si sedette accanto e con aria di sfida le disse: “Io qua sto. Vai dove devi, ma torna. Io qua sto.”
I figli, che avevano sentito raccontare tante volte al storia della prima morte della mamma, si disposero attorno al letto e si preparano alla veglia. Giovanna la lavò e la vestì, le altre figlie la pettinarono con cura e le baciarono le guance e le mani. Tutti pregavano tranne Giovanna e il padre. Giovanna biascicava le novene che la mamma le aveva insegnato. Amedeo attendeva.
All’alba, la figlia Giovanna si sentì accarezzare la mano. Gelsomina era lì, seduta al centro del letto matrimoniale come una regina. Guardò la figlia con amore e mantenendosi  lo stomaco con le mani le disse: “Ho fame”.
  
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