La bisnonna Gelsomina morì tre volte.
L’ultima fu a 99 anni e un
giorno.
La prima volta che le si fermò il
cuore, aveva 20 anni. Era stata una corsa precipitosa e notturna nella Napoli
deserta dei primi anni del vecchio secolo. Non ci era voluto molto per arrivare
in ospedale, ma Gelsomina già non respirava più.
Amedeo era fuori in sala di
aspetto, assorto in una disperazione tetra e silenziosa. Da pochi anni aveva
sposato quella donna strana, passionale e bizzarra, che al mattino sbrigava le
faccende di casa e la sera preparava decotti per le vicine che le venivano a
confidare i problemi matrimoniali. Non era stato facile per lui imparare ad
accettare i suoi dialoghi surreali e
fuori tempo. La moglie indovinava il futuro col pendolo e sapeva raddrizzare le ossa dei bambini. “Legava” le
armi, così che i duelli cessassero ancor prima di cominciare. E spezzava le tempeste, potere che in un paese di mare e marinai la circondava di un’aura
di ammirazione e riconoscenza, e di sospetto e diffidenza.
Sfinito, sedeva tenendosi la
testa tra le gambe, e si chiedeva se avrebbe saputo rassegnarsi ad una vita di
noia. Non ebbe pensieri per l’anima di Gelsomina. Proprio la sera prima, in una
ardente notte d’amore, lei gli aveva confidato che la sua anima era al sicuro
in altro luogo.
D’improvviso, dall’interno della
stanza si sentì un tonfo ed un’esclamazione di orrore.
L’infermiera che era entrata a
ritirare gli effetti personali della morta, trovò Gelsomina seduta in mezzo al
letto, i lunghi capelli sciolti e la veste bianca appena appena ricamata
sull’orlo. Gelsomina la guardò con un sorriso beffardo. “Vengo da lontano. Ho
fame” le comunicò.
Nel quartiere si sparse la
notizia della resurrezione, e come in una processione di devoti, i vicini cominciarono
ad andare e tornare dalla casa di Gelsomina per osservarla col quel timore
reverenziale che si tributa ad una icona religiosa. Gelsomina continuava a
biascicare le sue novene muovendo le forze dei venti e dei mari e le mogli dei
marinai le recavano riconoscenti sporte di pane, frutta e prodotti dell’orto.
La seconda volta Gelsomina era
assorta alla finestra, quando la sua attenzione fu attirata da un lampo di luce
che le attraversò l’iride. Ebbe appena il tempo di girarsi verso la sedia più
vicina a lei prima di avvertire un bruciore al petto così forte da mozzarle il
respiro. Si appoggiò con una mano allo schienale della sedia,
stringendolo così forte da far sbiancare le nocche. Con l’altra mano si strinse
stupita la gola, chiedendo agli dei di restituirle l’aria che le mancava.
Accorsero intorno a lei I figli che
l’avevano sentita accasciarsi al suolo. Gelsomina, di nuovo, non respirava. La
figlia Giovanna guardò negli occhi il padre che disse:
“Portatela nel letto”
Le si sedette accanto e con aria
di sfida le disse: “Io qua sto. Vai dove devi, ma torna. Io qua sto.”
I figli, che avevano sentito
raccontare tante volte al storia della prima morte della mamma, si disposero
attorno al letto e si preparano alla veglia. Giovanna la lavò e la vestì, le
altre figlie la pettinarono con cura e le baciarono le guance e le mani. Tutti
pregavano tranne Giovanna e il padre. Giovanna biascicava le novene che la
mamma le aveva insegnato. Amedeo attendeva.
All’alba, la figlia Giovanna si
sentì accarezzare la mano. Gelsomina era lì, seduta al centro del letto
matrimoniale come una regina. Guardò la figlia con amore e mantenendosi lo stomaco con le mani le disse: “Ho fame”.
La sensitivita' e' un dono e puo' essere tramandato...bellissima storia!!
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