venerdì 20 febbraio 2015

Storytelling: gli avvocati maestri delle narrazioni


Tra tutti i professionisti, gli Avvocati dovrebbero essere i migliori narratori di storie. E' quanto afferma  Jonathan Shapiro famoso avvocato e sceneggiatore. "In fondo, noi abbiamo un enorme vantaggio: gli altri narratori hanno il problema di dover affrontare il foglio bianco e scegliere il soggetto, l'argomento. Gli avvocati hanno una grande quantità di materiale a portata di mano ogni giorno". 
I punti di forza degli Avvocati:
1) I materiali per una storia (personaggi, motivazioni, conflitti e soluzioni sono gli elementi fondamentali di qualsiasi storia). Ma queste cose sono pure al centro di qualsiasi disputa legale o controversia.
2) La conoscenza del potere delle parole (la vera conoscenza del potere della parole, in tutta la complessità dei significati, consente agli avvocati non solo di realizzare il percorso narrativo ma anche di cogliere quello dell'altra parte per rivelarne punti di debolezza ed eventuali torti).
"Lo storytelling non è semplicemente una metafora legale, è attività legale esso stesso. Lo storytelling dovrebbe essere una competenza perfettamente adattabile ai legali" afferma Shapiro.
Ma tutto questo è sufficiente? Per Shapiro la centralità della narrazione nelle professioni legali non è affatto sufficiente. I legali dovrebbero studiare gli elementi e le strutture delle storie, come funzionano e perchè. E soprattutto dovrebbero imparare i principi che da migliaia di anni guidano le grandi storie.
Ciò che gli avvocati fanno attualmente è assumere informazioni e condividerle nei modi più efficaci possibili. Lo fanno al fine di persuadere altri a fare o non fare qualcosa o ad assumere decisioni.
Troppo pochi legali sembrano realizzare la loro potenzialità come storytellers. A chi avesse dubbi Shapiro risponde che basterebbe chiedere ad un avvocato cosa fa per vivere.  Risponderebbe che si occupa occupa di settore civile, penale od altro e potrebbe spiegare che lavora a nome di una associazione o per conto proprio.
O potrebbe soffermarsi a descrivere i suoi clienti o i casi. Nessuno in genere dice di servire la giustizia per vivere o di lavorare per proteggere i diritti di altri o di alzarsi al mattino per assicurare che l'America resti uno Stato di diritto. C'è una ragione per cui evitano di dire ciò: potrebbero sembrare folli se lo facessero.

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mercoledì 18 febbraio 2015

Dialogo a due voci.

Non provo più nulla per te. 
E me lo dici così? 
Ho cercato altre parole. Queste erano le migliori.
Sei crudele. Non posso vivere senza di te. Anzi. Non so vivere senza di te.
Sai farlo benissimo. L'hai fatto sinora.
Non credere. Non è così. Sei unica per me. (Sospirando) Io ti amo.
Ti amo, ti amo...non ami me. Ami l'idea che hai di me. Ami me nella tua vita. Ami il pensiero di avere il pensiero di me.
Ecco che ricominci. Fai la difficile.
Non sono difficile. Sono così semplice che sembro difficile.
Siamo stati così bene ieri a Vico. Una giornata meravigliosa. Mi sembrava di esser tornato fanciullo...
(Tremando) Ė vero, siamo stati benissimo. L'aria era tersa, rendeva le persone immobili, sembrava di stare in una fotografia.
Cosa è accaduto? Perché non possiamo restare in quella fotografia?
(Trasognata, come se fosse altrove) Ho un'altra fotografia per te. Ricordi la vigilia di Natale?
(Lui sorride)
Mi desti appuntamento alla Feltrinelli, ero eccitata come una bambina. Credevo che avremmo girato fra gli scaffali e che mi avresti regalato un libro che avrei scelto...
Non sono così banale, lo sai.
(Dura) Già. Tu non sei banale, proprio così. (Trattiene il tremito della voce) Ti presentasti con una scatolina di velluto rosso, intanto l'autista ti aspettava fuori, in seconda fila. Avevi la cena dall'onorevole, dovevi tornare a casa a cambiarti.
(Lui non coglie la durezza del tono, né il tremito della voce. Anzi, è incoraggiato dalla tenerezza che il ricordo gli suscita) Non dimenticherò mai il tuo sguardo stupito quando prendesti in mano quello strano ciondolo. Non capivi cosa fosse.
(Con dolcezza) Il più bel Natale. Il più bel regalo. Non il ciondolo, che indossai per non togliere più. Fino a ieri.
(Lui trasale. Si accorge dell’assenza del ciondolo)
Non il pendente, ma le parole che lo accompagnarono. I pensieri che avevano guidato la mano dell'orefice nel creare quel disegno. (Si gira a guardarlo) Era stato pensato apposta per me, così mi dicesti. Di ogni linea e di ogni curva mi spiegasti il significato.
(Sollevato) Credo di capire. Perdonami, ti ho trascurata, ti ho data per scontata. Non ho più fatto nulla di speciale per te. Dammi la possibilità di rimediare.
(Lo sguardo perso nel vuoto, ormai lontana) Non c'è rimedio, al nulla. 
Non dire così. Ci sarà un altro Natale per noi. Un'altra Vico.
Come hai detto, prima? Che non sei banale?
(A disagio) Non incominciare, ti prego. Ho detto che rimedierò alla mia trascuratezza.
(Si allontana da lui) Dopo Vico mi hai lasciata allo studio. È arrivata tua moglie, all'improvviso, dopo tanto che non si faceva vedere. E l'ho visto. Il ciondolo.
(Lui non osa più guardarla. Tace)
Si è avvicinata a me, si rigirava la catenina tra le mani, con delicatezza. Ha notato il mio sguardo. Bello eh, mi dice? Mio marito l'ha fatto creare apposta per me.
(Balbettando) Si è accorta che lo indossavi anche tu?
(Sprezzante) Non so. Non mi interessa.
(Quasi piagnucolante) Credimi, era stato creato per te, unicamente per te. Quello che ti ho raccontato era tutto vero. Solo non sapevo cosa regalarle. E così...
Hai voluto farmi sentire speciale. E mi hai resa una fra tante.
(Contrito) Non volevo.
Se tu mi avessi regalato un libro quel pomeriggio, forse mi sarei sentita una fra tante. Ma consapevole di esserlo, e per questo mi sarei sentita speciale. Ora vai, ti prego. 
(Avvilito) Dimmi almeno che hai ancora stima di me.

Mi spiace. Quella non l'ho mai avuta.

sabato 7 febbraio 2015

La morte e il ritorno

La bisnonna Gelsomina  morì tre volte.  
L’ultima fu a 99 anni e un giorno.
La prima volta che le si fermò il cuore, aveva 20 anni. Era stata una corsa precipitosa e notturna nella Napoli deserta dei primi anni del vecchio secolo. Non ci era voluto molto per arrivare in ospedale, ma Gelsomina già non respirava più.
Amedeo era fuori in sala di aspetto, assorto in una disperazione tetra e silenziosa. Da pochi anni aveva sposato quella donna strana, passionale e bizzarra, che al mattino sbrigava le faccende di casa e la sera preparava decotti per le vicine che le venivano a confidare i problemi matrimoniali. Non era stato facile per lui imparare ad accettare i suoi dialoghi surreali e fuori tempo. La moglie indovinava il futuro col pendolo e  sapeva  raddrizzare le ossa dei bambini. “Legava” le armi, così che i duelli cessassero ancor prima di cominciare.  E spezzava le tempeste, potere che in un paese di mare e marinai la circondava di un’aura di ammirazione e riconoscenza, e di sospetto e diffidenza.
Sfinito, sedeva tenendosi la testa tra le gambe, e si chiedeva se avrebbe saputo rassegnarsi ad una vita di noia. Non ebbe pensieri per l’anima di Gelsomina. Proprio la sera prima, in una ardente notte d’amore, lei gli aveva confidato che la sua anima era al sicuro in altro luogo.
D’improvviso, dall’interno della stanza si sentì un tonfo ed un’esclamazione di orrore.
L’infermiera che era entrata a ritirare gli effetti personali della morta, trovò Gelsomina seduta in mezzo al letto, i lunghi capelli sciolti e la veste bianca appena appena ricamata sull’orlo. Gelsomina la guardò con un sorriso beffardo. “Vengo da lontano. Ho fame” le comunicò.
Nel quartiere si sparse la notizia della resurrezione, e come in una processione di devoti, i vicini cominciarono ad andare e tornare dalla casa di Gelsomina per osservarla col quel timore reverenziale che si tributa ad una icona religiosa. Gelsomina continuava a biascicare le sue novene muovendo le forze dei venti e dei mari e le mogli dei marinai le recavano riconoscenti sporte di pane, frutta e prodotti dell’orto.
La seconda volta Gelsomina era assorta alla finestra, quando la sua attenzione fu attirata da un lampo di luce che le attraversò l’iride. Ebbe appena il tempo di girarsi verso la sedia più vicina a lei prima di avvertire un bruciore al petto così forte da mozzarle il respiro.  Si appoggiò  con una mano allo schienale della sedia, stringendolo così forte da far sbiancare le nocche. Con l’altra mano si strinse stupita la gola, chiedendo agli dei di restituirle l’aria che le mancava.
Accorsero intorno a lei I figli che l’avevano sentita accasciarsi al suolo. Gelsomina, di nuovo, non respirava. La figlia Giovanna guardò negli occhi il padre che disse:
“Portatela nel letto”
Le si sedette accanto e con aria di sfida le disse: “Io qua sto. Vai dove devi, ma torna. Io qua sto.”
I figli, che avevano sentito raccontare tante volte al storia della prima morte della mamma, si disposero attorno al letto e si preparano alla veglia. Giovanna la lavò e la vestì, le altre figlie la pettinarono con cura e le baciarono le guance e le mani. Tutti pregavano tranne Giovanna e il padre. Giovanna biascicava le novene che la mamma le aveva insegnato. Amedeo attendeva.
All’alba, la figlia Giovanna si sentì accarezzare la mano. Gelsomina era lì, seduta al centro del letto matrimoniale come una regina. Guardò la figlia con amore e mantenendosi  lo stomaco con le mani le disse: “Ho fame”.
  
 https://www.facebook.com/pages/Non-è-vero-ma-forse-chissà/269657106428702



mercoledì 4 febbraio 2015

Linguaggi moderni

Quanto vale incontrarsi al buio di un’emozione che non si conosce per imparare a conoscere il corpo che ti ha regalato quella emozione?
Il primo bacio è il segnale di come andranno le cose. Se sfugge un tremito e ti innamori subito di un sapore...saprai da subito il valore di quello che stai vivendo.Tutto il resto non conta.
Si sono incontrati senza neanche riuscire a guardarsi negli occhi. Il linguaggio scabroso dei loro messaggi ha nascosto il pudore dei sentimenti. E adesso sono in preda ad una timidezza paralizzante, quella che ti fa desiderare di non essere lì ma di avere la forza di restarci fino alla fine.
Troppo vissuti per pensare all’amore. Ma il desiderio di essere per un attimo in una terra di nessuno li hacostretti ad incontrarsi, a doversi guardare anche negli occhi, peggio, li ha costretti a parlarsi!
Le parole che costruiscono sono le stesse che distruggono.
Mutano forma e costruzione metrica, inciampano su se stesse.
Povere tristi parole. Diventano strambe e cacofoniche. Si rifugiano nella loro ombra, e aspettano che un messaggio le riporti al loro splendore.
Ma sulla via del ritorno, provano lo stesso brivido che hanno provato sfiorandosi con la mano.
Torna in mente il sapore di quel primo bacio.
Vorrebbero non esserselo mai dato.
Per ricominciare daccapo.